Ogni detenuto scrive un’Odissea
Gianluigi Colin Corriere della Sera, La Lettura
22 settembre 2024
Il suo studio romano, a pochi passi dalla basilica di Santa Maria in Trastevere, è un garbato e rivelatore spazio della memoria, quella personale e quella della grande storia: alle pareti una sequenza di pagine di libri antichi su cui sono minuziosamente disegnate le radici di alberi misteriosi, poi teatrini per ammirare l’ombra di fragili foglie e ancora piccole ed enigmatiche tele dedicate ai panni bianchi che avvolgono le figure nella storia dell’arte. Dovunque libri e infine, sparsi per terra quasi a caso, frammenti della Roma antica recuperati da amici antiquari: capitelli, pietre, iscrizioni... Un antro silenzioso, elegante, razionale e caotico, dove si respira la leggerezza della creazione e la densità della storia.
È curioso ammirare lo studio di Tommaso Spazzini Villa (Milano, 1986) e scoprire come nel suo nuovo lavoro, Autoritratti (divenuto un libro per Quodlibet) , ci sia un filo rosso nascosto, rivelatore del suo segreto modo di vedere il mondo. Spazzini Villa è una figura inaspettata, per alcuni versi prodigiosa, dal carattere delicatissimo, eppure determinato e con una decisa sensibilità poliedrica: laureato alla Bocconi di Milano, ma anche in Storia dell’Arte alla Sapienza di Roma, per mantenersi gli studi ha fatto il portiere di notte, il mozzo, il ballerino a pagamento per attempate appassionate di polka e quadriglia francese. Ha anche una curiosa deriva etologica con una passione per le galline (possiede un ex libris con il disegno di una gallina), tanto che tra maggio e giugno convive nel suo studio con decine di pigolanti pulcini.
Dal 2018 Tommaso Spazzini Villa ha dato vita a un progetto (divenuto la copertina de «la Lettura» #660 del 21 luglio e poi il libro Autoritratti) che ha coinvolto molti detenuti delle carceri italiane. A ognuno di loro ha lasciato una pagina dell’Odissea dell’edizione Einaudi (quella tradotta magnificamente da Rosa Calzecchi Onesti), chiedendo di sottolineare alcune parole all’interno del testo per creare brevi frasi di senso compiuto: parole che si manifestassero come uno specchio della loro esistenza o semplicemente evocassero un sentimento o, ancora, potessero scavare qualcosa nell’inconscio.
Le scelte hanno messo in luce brevi, spesso dolorose frasi che hanno dato sostanza al vissuto dei protagonisti di questa geniale azione artistica. Sottolineando le parole con matite, biro, pennarelli colorati, ogni detenuto aveva la possibilità di creare una storia, una storia in cui mostrare la propria vita, un autoritratto, appunto. Ma poteva anche far parlare il proprio silenzio. Poteva tacere.
In questo progetto di struggente e prodigiosa «anticancellatura», Spazzini Villa sembra continuare in quel processo davvero epifanico di mettere in luce qualcosa che non è immediatamente visibile: al pari delle radici degli alberi «rivelati», alle ombre delle foglie secche capaci di disegnare figure immaginarie, o ai panni bianchi, isolati dai dipinti sacri della storia dell’arte, l’artista anche qui attua una operazione di rivelazione. Ma, va detto, in Autoritratti è resa ancora più interessante grazie alla partecipazione attiva di speciali compagni di viaggio.
Alcune scelte dei detenuti sono davvero emozionanti per la loro forza evocativa: nella pagina dedicata alla «strage dei pretendenti» un detenuto sottolinea queste parole: «Ho sbagliato / ma / intanto / vivo». Oppure, un altro, che apre il volume nella pagina dedicata al «concilio degli dèi e l’esortazione di Atena a Telemaco»: «La sua vita/ si/ distrusse/ ma non/ se n’andò/ per esser presente/ alla fine disgraziata». O ancora: «Sopra tutti i mortali/ mio è/ il pianto/ glorioso». O quella che non può lasciare indifferenti e racconta un tormentato universo: «Che/ dio/ al più presto/ venga qui».
Certo, in questi mesi in cui la cronaca ci parla delle disperate condizioni di vita, del sovraffollamento e dei tanti suicidi nelle carceri italiane, queste parole si rivelano esemplari invocazioni d’aiuto: «Da questa esperienza mi restano due cose. Che la prigione è un posto che riguarda tutti noi, da cui nessuno può sentirsi in salvo: ho incontrato persone che scontano anni di carcere per aver commesso errori banali, per essersi trovate in situazioni complesse e aver fatto scelte sbagliate, per non aver saputo dire di no, per aver agito d’impulso. E poi che la pena non riabilitativa è una perversione disumana e insensata, come lo sono state la schiavitù e i manicomi».
C’è la tragedia e la coscienza di chi è consapevole delle proprie azioni. C’è chi vive la rabbia, chi la disperazione, chi il dolore che lo annienta, ma c’è anche speranza e poesia. Tanta poesia. Tommaso Spazzini Villa legge ad alta voce un incipit: «Caro/ autunno/ incredulo»... Non potrebbe essere un verso di Giuseppe Ungaretti?
Poi prosegue: «Credo nell’Odissea come poema della conoscenza conseguita attraverso il superamento degli ostacoli. È una condizione che viene imposta a Odisseo, lui la soffre, deve costruire la sua pace, deve costruirsi la via del ritorno, impiega dieci anni per percorrere questa strada. È il libro del mare, l’archetipo di ogni futuro romanzo d’avventura. Ed è anche il poema degli umili: il leale porcaro Eumeo, la fedele nutrice Euriclea, il bovaro Filezio. Penso all’Odissea come a un testo collettivo in cui milioni di uomini, in migliaia di anni, hanno trovato e riconosciuto quel materiale altrimenti denso e informe che sono i moti del nostro animo, emozioni che con l’ascolto reiterato e ripetuto trova luogo e pace, sollievo e comprensione. Autoritratti è l’unità minima di questo movimento perché restringe a una sola pagina l’incontro con il testo. L’Odissea non è presa in considerazione per la sua struttura narrativa ma come insieme di immagini, segni, emozioni contenuti all’interno di una singola pagina. Non c’è nulla di automatico e inconscio — è un lavoro lontano dall’approccio al testo dadaista. Quello di sottolineare è un gesto lento in cui chi legge si rispecchia nelle parole, le cerchia, le sottolinea, le cancella, le ritrova andando lentamente a comporre un ritratto di sé, di ciò che quella pagina riflette e rispecchia di sé».
Il momento più doloroso di questa esperienza artistica e umana? «Uscire dalla porta principale, riprendere il telefonino e gli effetti personali dalla cassetta di sicurezza e tornare libero. Rendermi conto del valore della libertà, di cosa voglia dire essere privati di tutto, della violenza latente all’interno di quelle mura, della tensione costante che logora e annienta, e avere visto troppi occhi spenti. Ma soprattutto ho capito ancora di più la lezione di Fernando Pessoa: la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta».